“Erano dedicate a lei, tutte quelle réclame: la consumatrice ideale, soggetto e oggetto di ogni odioso manifesto”.

Vladimir Nabokov, Lolita, 1955

di Massimiliano Peroni

Rileggendo il gran romanzo di Nabokov per l’ennesima volta, ne ricavo quest’impressione: sotto la coltre dell’ironico e raffinato gioco letterario, il libro svela la struttura mostruosa della società di quel tempo – e profetizza l’attuale proseguimento, forse compimento di tale mostruosità.

Bisogna comprendere anzitutto che gli ambienti e tipi umani filistei americani degli anni Cinquanta, tanto ricorrenti nel libro, non servono semplicemente da sfondo o contrappunto realistico-satirico a una rarefatta parodia di “storia d’amore”, ossia la vicenda peculiare del narratore/protagonista Humbert Humbert, il quale, ossessionato da un certo demone erotico, concupisce una ragazzina qualsiasi.

No, il filisteismo è proprio la spia del vero dramma del libro, poiché Lolita, la ragazzina in questione, è come intrappolata a priori, doppiamente dis-educata e rovinata già dal contesto sociale concreto nel quale è nata e cresce: da un lato, infatti, viene blandita senza sosta dalle banali idiote avvilenti seduzioni commerciali di un sistema generale improntato al “consumismo” (posto che si colga, dietro quest’etichetta cui ci siamo fin troppo abituati, il peso di una realtà atroce, squadernata nelle sue varie fasi, tra gli altri, da Adorno, Debord, Pasolini, Clouscard, Kundera…); dall’altro la povera Lo è pure trascurata e/o vessata dalle sue frequentazioni familiari e intime, passando di continuo dalla padella alla brace, radicalmente non-amata da nessuno, ma da ciascuno in qualche modo violata & abbandonata – finendo così per comportarsi anche lei, per imitazione e sopravvivenza, come un menzognero conformista immorale mostriciattolo senz’anima.

Ne consegue un corollario più sconfortante che scandaloso: rispetto a sua madre (una donna egocentrica, anzi fissa in una ripugnante rivalità femminile con la figlia), e rispetto al suo secondo seduttore/rapitore (artista e “uomo di successo”, cioè perfetto rappresentante del marciume dietro il “mondo dello spettacolo”), per tacer d’inebetiti educatori e di meschini coetanei, Lolita è QUASI amata sul serio SOLO dal suo violentatore/patrigno de facto!

Ebbene sì, in quel panorama (dis)umano desolante, l’unico ad avere un barlume di coscienza intellettuale e consapevolezza morale, data la sua intelligenza, sensibilità ed esperienza di colto uomo europeo vecchio stampo, è proprio lo straniero, l’emarginato Humbert Humbert. È veramente il solo a provare, confusamente, un moto di sincero amore per Dolores, a tentare di VEDERLA.

Tuttavia, prigioniero della perversione, non riesce a volere il bene di lei, se non a parole, e soltanto retrospettivamente, a danno fatto, in una sorta di contorto pentimento, una redenzione in extremis, però autentica. Il tono ironico dominante nella narrazione cede il posto alla tragedia, e questa è a sua volta superata in sorta di apertura spirituale. Per inciso, la spiritualità seria è forse la cosa più estranea, più incomprensibile al clima filisteo, pregno com’è di materialismo cinico, giusto ornato di ipocrita benpensantismo ora sentimentale ora formale.

Insomma, un palese pervertito si rivela, in un certo senso, meno patologico delle cosiddette persone normali, ovverosia integrate nell’iniquità sociale imperante.

Una simile società è ancora la nostra, o meglio la nostra ne è il parossismo terminale; cambiano (diventano sempre più pervasive invadenti efficaci) mode e tecnologie di facciata ma rimane il nocciolo: bambini e ragazzi sono fin dalla nascita catturati in una rete sterminata di sciocchezze, sconcezze, scrausi surrogati di affetti e virtù, innumerevoli incentivi al male, e con ciò altrettante occasioni per gli adulti di f…regarli.

Con la beffa ulteriore dell’essere magnificati dai media, considerati Modelli di riferimento per gli adulti medesimi, i quali risultano oramai compiutamente infantilizzati e/o adolescentizzati – “rimbambocciti”, scriveva un altro mirabile, profetico autore del ‘900, Witold Gombrowicz.

Alla fin fine, il sistema vigente tende a trasformarci tutti, giovani e adulti, in un esercito sterminato di iper-egocentrici ragazzini ligi al consumo, in loliti de-responsabilizzati, odiatori di limiti e disciplina (pertanto convinti della necessità della “rivolta totale” a fantasmi di autorità vecchie, estinte o irrilevanti), al contempo del tutto manipolabili sfruttabili irreggimentabili con il raggiro del desiderio reiterato, robotizzato, ridotto al livello del grido bambinesco “voglio una caramellaaaaaaa!”.

Giusto un breve esempio odierno, fuori dai cliché moralistici e psicologicistici sui social o sui cellulari quali esclusivi, isolati colpevoli del Male: le librerie, soprattutto (ma non solo) di catena e franchising. Altro che “templi della cultura”! Basta osservare con attenzione l’esposizione delle novità, pile su pile di oggetti coloratissimi, sbriluccicosi, lisergici – di una psichedelia squallida, però.

Ogni copertina fa a gara per imporsi con violenza agli occhi del potenziale acquirente, in una pornografia di emozioni basiche – come se potessero esistere soltanto quelle –, in un indefinito ipermercato di dolciumi, uno stomachevole paese dei balocchi.

Poi, aprendoli e sfogliandoli, questi libri-dolcetti, si scoprono di una pochezza davvero cancerogena, le parole di un vocabolario miserabile si accatastano le une sulle altre in un’insensatezza demente, lontana anni luce anche soltanto dalla rilassante frivolezza.

Ne consegue che cliente-modello delle librerie maggioritarie, meglio ancora il modello di lettore/essere umano che tali librerie contribuiscono ad allevare e mantenere, è lo stesso di ogni altro non-luogo contemporaneo di spaccio di merce qualsiasi: un sotto-uomo infantilizzato, che risponde in automatico a stimoli di grana grossa, di “gola”, viziosi e alla lunga velenosi, trascurando tanto il “nutrimento” quanto il “gusto”.

Massimiliano Peroni

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