Gli eventi ormai ci sovrastano. Non siamo in grado di parteciparvi direttamente e, in tutti o quasi tutti, prevale la distanza di sicurezza, abilmente alimentata dai media. Non è assolutamente vero che la tv, per citarne uno dei più pervasivi e totalitari, ci porta il mondo in casa. La tv ci allontana dal mondo. In questo modo, riarticolato oggi su innumerevoli strumenti unificati dalla rete che svolgono la stessa funzione di allontanamento, gli eventi diventano simulacri e partecipano della sua struttura manipolativa. Strutture dotate di senso ma non di realtà. I simulacri oggi sono eventi grazie ai quali il sistema può, più o meno agevolmente, superare i punti della sua crisi mortale. Il senso di questa mortalità non va equivocato: è crisi che conduce alla morte del sistema, ma produce anche la morte dei suoi antagonisti. Così che entrambi sono avvinghiati in una lotta, appunto, mortale il cui esito può decidere della sopravvivenza dell’uno o dell’altro. La funzione del simulacro risolve la crisi a vantaggio di chi l’ha provocata. L’Italia normalizzata dopo il 77 ha prodotto una quantità notevole di questi simulacri. La stessa lotta armata è stato un simulacro. Non perché non fosse reale, ma perché il suo stesso svolgersi influiva e determinava la sua sconfitta e aveva in sé stessa le ragioni del suo estinguersi.
Il susseguirsi delle “lotte studentesche”, repliche sempre più farsesche della contestazione studentesca del 68. Il simulacro è una conformazione variabile che trascende le intenzioni stesse degli attori in gioco. Sono la messa in scena di una vitalità sociale che sempre più si estingue, fino alla sua attuale scomparsa, schiacciata dal “realismo di guerra”, dalle prerogative della guerra con il suo carico di morte. È la morte, l’unico vero effetto della guerra, a spezzare il fascino del simulacro, ma solo per coloro che la subiscono e a cui viene imposta. Il sistema, attraverso la guerra, riesce a mantenere in funzione a pieno regime la macchina dei suoi simulacri.
Non è facile valutare se gli eventi sociali da cui siamo circondati e di cui abbiamo notizie, per lo più distorte e manipolate, appartengano al simulacro o siano irruzioni violente della realtà nella rappresentazione. La vicenda che si sta dipanando intorno al Texas e alla sua ipotetica secessione è una di questa. La Palestina, con lo sviluppo drammatico di un conflitto ancora legato allo spazio e al tempo di un territorio conteso, fa fatica a inserirsi nella logica del simulacro. Nei suoi confronti vige il doppio legame dell’obbligo, fatto proprio dal sistema informativo, vero attore del simulacro, di raccontarlo come un fatto reale – e reale lo è incontrovertibilmente – e nello stesso tempo di consegnarlo alla più efficace delle narrazioni simulacrali, quella che parte dalla definizione preventiva delle vittime e dei carnefici, sui quali è possibile giocare le carte dell’inversione dei ruoli a seconda degli interessi dei contendenti.
Questo per dire che nella situazione attuale il dato di realtà sta scomparendo, fagogitato dalla forza assunta dalla rappresentazione che determina nelle stesse diramazioni del nostro sistema nervoso reazioni e postura fisica, azioni ed emozioni, paralizzando la capacità di articolazione del pensiero. Di fronte a questa potenza dispiegata non si può più neppure dire “difendiamo il pensiero critico”, dovremmo urlare “difendiamo il pensiero”, ma quel grido, se mai viene emesso sarà subito inserito in questo o quel simulacro pronto all’uso. È una gabbia di ferro, al cui confronto quella descritta da Max Weber era pari al fil di ferro di una voliera per uccellini nati in cattività.

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