C’è una polemica che ha coinvolto il mondo musicale italiano. Beninteso, non quello confuso con la società dello spettacolo e del costume di cui fanno parte i Maneskin, Elodie, la trap e Sanremo (anche se, nei prossimi giorni, Sparagmòs dedicherà un reportage alla kermesse – ovviamente in termini musicali), ma una volta tanto quello propriamente detto, in cui si suona o si vorrebbe suonare. Oggetto della polemica è Matteo Mancuso, ventisettenne siciliano, chitarrista virtuoso di estrazione jazz/fusion, che negli ultimi anni, grazie alla sua funambolica tecnica (fondata su un uso della mano destra a metà strada tra basso elettrico e chitarra classica, che sostituisce al plettro, come di norma negli strumenti moderni ed elettrici, le prime quattro dita) si è guadagnato fama internazionale anche negli Stati Uniti, nonché l’ammirazione di interpreti monumentali dello strumento come Al Di Meola, Joe Bonamassa e Steve Vai. 

In un video su YouTube diventato presto virale, il critico musicale ed ex veejay di Mtv Enrico Silvestrin, su invito dei suoi spettatori, si è espresso sul talento italiano definendolo “un suonatore di musica, un esecutore […], un esecutore anche di canzoni sue, ovviamente, ma che ai fini della musica non serviranno mai a niente”, e aggiungendo “la [sua] musica incisa ha la stessa dignità di una base MIDI, né più né meno. E non mi dite che [il suo] è un disco suonato bene, in cui si suona bene, con canzoni valide: non hanno nessuna valenza. Sono semplicemente una giustificazione per lui, per mettere in mostra tutte le sue tecniche”. Ovviamente, le reazioni da parte degli estimatori di Mancuso non si sono fatte mancare.

Un po’ come nella precedente polemica da lui scatenata, di cui furono oggetto i Maneskin, Silvestrin ha ragione ma non coglie il vero problema. È vero, Matteo Mancuso, al netto di una tecnica quasi ineccepibile (e sul “quasi” torneremo a fine articolo), non ha mai scritto o suonato una nota che fosse vagamente interessante. Il suo chitarrismo è la solita rimasticatura di Eric Johnson e Greg Howe, già sentita in Guthrie Govan o in un altro ex giovane talento italiano, Daniele Gottardo, che passati i trent’anni è finito nel dimenticatoio. Roba da “riccardoni”, come si definivano un tempo i feticisti della tecnica musicale fine a sé stessa.

La differenza con il passato, tuttavia, è che anche questi sedicenti appassionati di musica rispondono a criteri di fruizione del mezzo nati con la “musica liquida”, lo streaming di piattaforme come Spotify e, appunto, YouTube. E questo lo dimostra il modo in cui Mancuso è stato da questi celebrato: non per i dischi (quello d’esordio è uscito solo quest’anno, a fama già ben consolidata), né per i concerti, ma fondamentalmente per gli innumerevoli video girati in HQ su YouTube e Instagram, in cui si lanciava in improvvisazioni infinite e circensi su brani in sala prove o, più spesso, su basi musicali. Nulla di diverso dall’iter del trapper medio o del cantante elettro-pop-indie con problemi di identità sessuale, masticati a getto continuo dai dieci minuti di fama del web, per poi essere sostituiti a loro volta da altri candidati masticabili. E nulla impedisce che Mancuso faccia la stessa fine, appena passati i trenta e con un altro fenomeno con meno di vent’anni proveniente da Tik Tok.

E dall’altro lato, quale sarebbe l’estetica musicale che promuoverebbe Silvestrin, opponendola ai “riccardoni”? Ne parla spesso, è l’elettronica (la solita elettronica post-Brian Eno) oppure gruppi grezzi come Idles e Fountaines D.C. Ma Silvestrin non sembra accorgersi che anche questi artisti, come Mancuso, non fanno musica, non scrivono canzoni e le loro performance live sono ridotte a qualche mega festival estivo. Il loro è un medesimo vuoto espressivo e artistico che, unica differenza, non viene riempito con esibizionismi funambolici ma con sonorizzazioni, produzione, layer di strumenti perlopiù virtuali nelle loro DAWs, e l’onnipresente sound design.

Mancuso e le proposte di Silvestrin sono entrambi il prodotto della musica digitale, che ha condizionato a tal punto il suo pubblico da obliterare la memoria dei tempi precedenti. Un pubblico che non sa più ascoltare una performance musicale né un lavoro di composizione, ma si riempie di un continuo rumore bianco psicotropo (che serve sempre per rilassarsi o per allenarsi meglio, come un qualsiasi stupefacente) o delle emozioni forti delle acrobazie audiovisive come di fronte alla pornografia.

Poco sopra ho detto che la tecnica di Mancuso è “quasi” ineccepibile. La ragione l’ho trovata in un video di ieri di Rick Beato, in cui Mancuso viene intervistato accanto a un altro virtuoso del web, Mateus Asato. Quest’ultimo passa un plettro all’italiano, dopo che Beato gli ha chiesto se avesse mai provato a usarne uno. Mancuso lo prende e azzarda una piccola scala maggiore. Il risultato è impreciso, ovviamente, ma le note escono chiare, definite, grosse. Subito dopo posa il plettro e torna a suonare con la sua tecnica della mano destra, ed ecco ritrovata la solita marmellata di note velocissime ma in cui ci si accorge per la prima volta che sono, o sono sempre state, scure, inscatolate, ovattate. Il web 2.0 in fondo è sempre stato questo: un’illusione costante dovuta al fatto che manchino punti di riferimento, termini di paragone e materia (aria compresa). Insomma, manca la realtà.

Dario Biagiotti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *