Non è più possibile, dopo gli ultimi due anni di guerra, evitare l’angosciosa domanda: la guerra è ancora in grado di risolvere i problemi da cui nasce? Porsela significa fuggire una volta per tutte all’incantesimo che rende la guerra un orizzonte di gloria.
Affermare una cosa come “sì, è vero, la guerra è inaccettabile perché non risolve nulla e peggiora tutto” significa solo affermare l’impotenza della stessa guerra, proprio nel cuore e nel momento in cui la sua potenza devastatrice è al massimo e vorrebbe ottenere tutti i suoi obiettivi. Con la “guerra totale” – altro che guerra mondiale a pezzi! ultimo abbaglio ecclesiale dopo innumerevoli altri – non si potrà decretare alcun vinto e alcun vincitore. I contendenti sono avvinghiati in una lotta che una volta si sarebbe definita mortale, nel senso che morto uno l’altro tornerebbe alle sua pacifiche attività. No, non è più così. Non può più essere così. Il modello hitleriano dell’estinzione totale del nemico assoluto, debitore del concetto di guerra che fu di Clausewitz, si è ora realizzato, come del resto si sono realizzati tanti aspetti del programma nazista: eugenetica, miglioramento della specie come obiettivo prioritario; eutanasia, potenziamento umano come parola che accoglie in sé l’impronunciabile “razza” ecc.
La guerra non è più l’ultima ratio bensì la risorsa a cui si fa ricorso quando si vuole ottenere qualcosa di meglio e definitivo nel confronto totale con chi si è eletto a nemico assoluto o relativo, poco importa, perché quello che conta è l’obiettivo economico e strategico che si vuol raggiungere. La differenza, che si cerca di nascondere, tra Ukraina e Gaza è proprio questa: in Ukraina, la guerra è quasi tradizionale – se si esclude la presenza massiccia dei droni –, trincee, fanteria al macello, munizionamento pesante, bocche di cannone sempre più grosse, missili ipersonici e molta elettronica, ma sostanzialmente è ancora un confronto “umano”. E non a caso gli sconfinamenti che si producono di tanto in tanto – l’Iliuscin abbattuto con i prigionieri di guerra che tornavano in patria, per esempio – rafforzano il vecchio linguaggio del confronto, anche ideologico con i russi che riprendono i motivi della guerra patriottica e dell’antinazismo.
È a Gaza che invece la modifica del paradigma bellico si palesa con forza irreversibile. Nel più classico dei conflitti territoriali si sviluppa la più innovativa delle esperienze di guerra dopo la Seconda mondiale. Una guerra che attraversa tutte e due le società in conflitto – non le chiamo nazioni –, mobilitandole, coinvolgendole, dall’una e dall’altra parte, fin nella più piccola delle manifestazioni di vita: l’ospedale, la moschea, il mercato, il kibutz, l’azienda agricola, il pozzo, l’abitazione, nulla viene risparmiato, perché la guerra assoluta non ha più alcun limite. Tutti si battono non fino alla morte, bensì perché la morte continui e non si arresti. La morte dei bambini non solo interrompe il futuro, come si dice abusando della consueta retorica sui nascituri che nascono sì ma finire dove? Appunto, per finire… non importa dove e come… finiscono. Questo conta. Sono due società che hanno nella famiglia la loro unità di misura, non nell’individuo separato e quindi radicano la loro vitalità nella filiazione. Ed è questa che viene messa a dura prova nella guerra di Gaza.
Se il nazismo, come osservava Pierre Legendre, è stato uno degli attacchi più formidabili al principio stesso di filiazione, perché interrompeva ogni nesso filiale, materno e paterno, a Gaza è possibile parlare di un aggiornamento di quel programma, di un suo adeguamento alle condizioni storiche mutate della e dalla guerra stessa. Se le guerre precedenti avevano lo scopo di risolvere le controversie, specie territoriali, oggi hanno il compito di continuarle, di approfondirle, di portarle al punto di più alta incandescenza, perché quella incandescenza è il crogiolo nel quale si fonde il nuovo oro che fornirà il materiale per la nuova convertibilità della carta straccia che è diventato il denaro. Non sarà la vita degli uomini la misura del valore, ma il valore misurerà la vita degli uomini; sarà la vita che non potrà più inflazionarsi, che dovrà evitare il suo moltiplicarsi, dovrà diventare materia rara senza prezzo, la base di tutti i prezzi. Deflazionare attraverso la guerra alla vita.
Riccardo De Benedetti
Queste brevi riflessioni hanno un debito assoluto alle tesi di Sari Nusseibeh, filosofo all’Università Al Quds di Gerusalemme Est così come riportate da Roger Berkowitz
Un contributo molto importante, sul quale riflettere al di fuori della bolla controllata e senza memoria dei social. Social che formano parte integrale dell’impossibile guerra e dove pure si possono raccogliere gemme come questa. Nel testo di riferimento, Berkowitz fa un accenno importante all’era della “guerra al terrore” iniziata nel 2001. Da oltre vent’anni (come preconizzato allora, fra gli altri, dal nostro resipiscente Giulietto Chiesa, deriso dai soliti progressisti demicolti e complessati) ci troviamo all’interno di questa che è un’autentica liquidazione commerciale della guerra, che contraffà con tale nome il massacro con bombardieri da 10000 m di altezza su popolazioni sostanzialmente inermi per ragioni inventate, variabili del marketing (nessuna relazione esisteva fra l’11 settembre e l’Iraq). La guerra è una leva finanziaria e monetaria che sposta valore; come tale nella modernità è sempre stata, innanzitutto, risorsa per il capitale. Ma è solo in questo lungo ventennio senza memoria, riprendendo e raffinando fino all’estremo l’ideale nazista che ancora contemplava almeno lo schiavismo dei popoli dell’est, che la spendibilità delle sue vittime e delle sue macerie si è fatta assoluta, sia in senso verticale (sterminio del nemico) che orizzontale (il nemico siamo tutti noi). La sua necessaria premessa è il controllo totale, fino al modellamento dei nostri stessi pensieri. Non tanto attraverso la propaganda più sfacciata (“la pace è guerra”) ma proprio usando le leve suadenti del marketing mediato dai social e dalla captazione dei nostri stessi desideri di consumo che consumano ogni altro desiderio, cioè la nostra vita. Date uno sguardo a quanti nostri simili, soprattutto quelli educati e informati, stanno di fatto tifando Armageddon chiedendo più armi all’Ucraina o giustificando, senza vergogna, il massacro di 11000 bambini in Palestina. Anche senza considerare l’opinione pubblica, buona per la favola della democrazia rappresentativa occidentale, la perdita di migliaia e milioni di esseri umani – forza produttiva prima, e di consumo poi – poteva essere un deterrente sufficiente a trattenere la guerra fino all’inizio del millennio, ma non è più così. Non a caso è allora che le dottrine nucleari sono state aggiornate, rendendo non più strategicamente impensabile l’olocausto dell’intera umanità sull’altare della Potenza. Tutto ciò non è una novità da almeno vent’anni, la guerra totale, come scrive Riccardo De Benedetti, è in corso e non “a pezzi”, in un vortice che ha colpito prima i luoghi umanamente più belli e perciò più lontani della nostra civiltà planetaria sempre più astratta ed esangue (Iraq, Afghanistan, Sudan, Yemen, Siria…) e si muove attraverso l’Europa centrale e la Terra Santa in un’unica onda tellurica che esploderà in tutto il suo furore in Europa (prima quella mediterranea). Follia? Di questa follia, attribuendola per un comprensibile errore di perspettiva ai soli israeliani, quando invece colpisce tutti noi, ha scritto molto bene Alon Mizrahi, cercando di dare una spiegazione all’evidente propaganda al contrario che il sionismo sta facendo a se stesso fino al punto di dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che esso vuole scatenare una nuvola nera di antisemitismo nel mondo, prendendo tutti gli ebrei come ostaggio del proprio crimine (https://x.com/alon_mizrahi/status/1753897051744583999?s=20). Solo che quel crimine non è il fascismo sionista, che è semmai un pallido riflesso di qualcosa di assai peggiore. Questa ombra nera e terribile si sta incarnando “in corpore vili” ovunque assistiamo al commercio del conflitto esposto, e alla sua preparazione nel modo in cui abitiamo noi stessi la nostra vita, illusi di vivere in pace.