Il crepuscolo dell’Occidente, la notte della coscienza e un’alba solo immaginabile. Lo spettacolo dell’attore e regista Riccardo Paccosi, Le sette parti della notte, monologo basato su una raccolta di testi di Giorgio Agamben con l’accompagnamento musicale del compositore e arpista Andrea Seki, andato in scena domenica scorsa allo Sweet Bunch di Roma, mette in scena la tragedia della società post-pandemica, post-vaccinista e, in ultima analisi, post-umana. Il deserto umano della digitalizzazione, l’emergenza come unico orizzonte e mezzo di controllo di entità sovranazionali, il distanziamento sociale e l’incombente minaccia del conflitto nucleare sono i temi di un racconto disperato, poiché la disperazione, per l’autore, è l’unico motore possibile dell’azione, sia essa artistica o politica.

           La messa in scena, complice anche il luogo in cui si è svolta, è minimale ma di una densità materiale, che si può toccare, respirare, e pone subito l’opera agli antipodi del nichilismo distaccato, depresso e algido che caratterizza la produzione egemone di contenuti artistici. Una platea piccola ma gremita (locale in sold-out) di corpi seduti su sedie vicine, la sala buia con pareti nere, l’arpa in mogano che occupa gran parte della scena, e soprattutto Paccosi, la corpulenza della sua maschera comica fuori contesto che amplifica la portata tragica del testo, solitario di fronte a un’asta con un grezzo microfono SM-58, la voce rotta, rauca, che schiocca e urla riverberandosi in effetti eco utilizzati ad arte. La fine della civiltà travolge corpi e cose, materia spenta ma non inerte, viva benché paralizzata dalla sua impotenza.

           I momenti recitati, incalzati dal magnetismo narrativo di Paccosi, sono nettamente la parte più forte dello spettacolo e forse meriterebbero più spazio e approfondimento, poiché gli intermezzi musicali sono molti, e a volte sembra quasi di assistere a un concerto piuttosto che a un recital. E questo, beninteso, senza nulla togliere al valore artistico della performance di Seki, che evoca perfettamente la distopia dell’attuale eterno presente con lancinanti brani, sia strumentali che cantati da lui e da Paccosi, su un’arpa neoceltica collegata a una loop station e a un delay.

           Tuttavia quando si parla di ricerca di forme estetiche realmente alternative al mainstream, quella difficile pars costruens su cui la dissidenza non riesce a trovare soluzioni condivise, opere come quella di Paccosi e Seki rappresentano bene una strada da seguire. Contro le piattaforme per individui depressi, reclusi e distanziati, servono i corpi, in mezzo ad altri corpi, di artisti che gridano, respirano, sudano, fanno della loro arte qualcosa di tangibile, anzi letteralmente tattile. Quello che il digitale e le AI non riusciranno mai a fare.

Dario Biagiotti

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