È opportuno nella riflessione su ciò che ci sta accadendo riprendere in mano il termine nichilismo? No e sì. No perché l’usura della nozione – e qui si aprirebbe un capitolo a dir poco entusiasmante sulla perversione intellettuale che ci costringe a utilizzare le parole al posto delle cose pur credendo, al contrario, che siano le cose ad adeguarsi alle idee – è tale che la stessa sua comparsa e formulazione partecipa del fenomeno che vorrebbe descrivere. Quindi da questo punto di vista sembrerebbe non esserci alcun motivo per tirare in ballo la categoria che ha reso così palpitanti i cuori di migliaia e migliaia di umili lavoratori nella vigna del Nulla. Ma c’è anche un sì. Un assenso alla situazione, di fatto nichilista, che potrebbe rivelarci molte più cose di quelle che ci occulta.
Il nichilismo riguarda essenzialmente l’agire. Il nulla non si contempla, il nulla chiede di agire; spinge all’azione. Anche rivoluzionaria, anzi soprattutto rivoluzionaria. Non più finalizzato, slegato, assolto dai suoi vincoli, considerati come ciò che impedisce il libero cancellarsi della realtà di fronte al volitivo proiettarsi dell’uomo in avanti, nello spazio siderale. Soltanto qualche decennio fa la favola del nichilismo veniva raccontata come l’auspicabile incontrarsi del Nulla con la possibilità di sviluppare potenziali umani inespressi, coartati e repressi dai “valori”. In altre parole, se nulla possiede più valore allora tutto è possibile, compreso restituire valore a ciò che non ne aveva prima, compreso il disvalore, compreso il male. Ed è questo ciò che stiamo vivendo: il male nel suo più potente dispiegarsi. Un male programmatico, progettato e articolato all’interno della logica nichilista. Il comparire di questa postura data almeno la comparsa delle formidabili tautologie otto-novecentesche: “arte per l’arte”; gli inni alle cose in quanto tali e tutti quei bellissimi tentativi alla Barone di Münchhausen di tirarsi su con il divin codino che ogni uomo possiede al fondo dei suoi calzoni… su su fino al cielo. E l’arconte di questo eone sa di quanto questi sforzi abbiano alimentato il suo dominio.
Ma di fronte a questa situazione, di fronte all’impossibilità manifesta di formulare una via d’uscita dal nichilismo non c’è alcuna possibilità ragionevole di ripristinare i vecchi ideali in nome dei quali agire, sacrificarsi, mobilitarsi, marciare, perdere il proprio tempo e le proprie energie, sapendo che nulla di tutto ciò a cui aspiriamo avrà mai modo di realizzarsi perché ciò che oggi appare compiuto è parte dell’insensato e del nulla. Di fronte al crollo verticale delle idealità, delle fedi, di ogni parvenza di senso per ciò che si affaccia nel mondo, fosse pure una nuova vita, un nuovo essere umano – quanto ingenua si sta rivelando la riflessione della grandissima Hannah Arendt sulla novità rappresentata dalla filiazione! – non c’è verso di potersi muoversi per qualcosa di diverso dal Nulla. Le sollecitazioni che provengono dall’osservazione della realtà sono destinate a infrangersi contro le scogliere di marmo della nostra impotenza. Ma è proprio questa impotenza che si dovrebbe coltivare, alimentare e alla fin fine fare propria. Sottrarsi, allontanarsi dal teatro di guerra, salvaguardare la vita nelle sue forme più elementari, sapendo che essa conserva in sé stessa il germe delle cose future e non solo quello delle cose presenti. A questa speranza occorrerebbe applicare il divieto cristiano ed ebraico a pronunciare il nome di Dio invano.
Riccardo De Benedetti