Perfect Days, l’ultimo film di Wim Wenders, è stato accolto, almeno in Italia, sostanzialmente in tre modi: una parte del pubblico e della critica lo ha apprezzato, limitandosi però a lodarlo con sbrigative etichette quali minimalismo poetico. Alcuni, invece, lo hanno disprezzato in quanto sarebbe meramente nostalgico, noioso, kitsch. Infine qualcuno della cosiddetta area del dissenso lo ha bocciato e ha gridato all’allarme, giacché il senso del film sarebbe in fondo un elogio liricizzante del famigerato slogan “non avrai nulla e sarai felice”, utilizzato sin dal 2016 dal World Economic Forum per riassumere il progetto d’élite di far fronte alle crisi del capitalismo tecno-finanziario globale riformandolo dall’interno, così determinando ab alto una sorta di decrescita collettiva.

E se tutti costoro si sbagliassero, in particolare i sedicenti dissidenti contro-il-Potere? E se Perfect Days fosse non un film vagamente poetico ma fortemente politico? O meglio: politico proprio perché poetico.

La scarna trama, difatti, segue da vicino la semplice quotidianità, nella Tokyo odierna, di Hirayama (l’attore giapponese Kōji Yakusho), un uomo taciturno di mezz’età che ha scelto di lasciare la vita agiata della famiglia d’origine per andare a vivere in un piccolo appartamento e lavorare come addetto alle pulizie dei gabinetti pubblici, dedicandosi per il resto ad attività quali la lettura, la fotografia, la cura delle sue piantine, l’ascolto di musicassette con i migliori classici della musica blues e rock occidentale.

Il protagonista non è falsamente “felice di non avere niente” ma è autenticamente felice dell’essenziale, essendosi ritagliato un suo mondo negl’interstizi di questo stesso mondo, rifiutandone in maniera discreta ma decisa (anzi, coraggiosa) tutte le seduzioni manipolazioni alienazioni. Hirayama, a differenza di molti polemici parolai ed esagitati ribelli contemporanei, ha davvero sconfitto il Potere (per quanto realisticamente possibile a una singola persona), poiché ha acquisito un habitus agli antipodi dei disvalori dominanti: è sempre attento e assieme rilassato, invece che distratto e innervosito, vivendo secondo un suo ritmo costante, non soverchiato da un’ottusa ripetitività indotta; concepisce il lavoro non come agonismo malsano e nemmeno come un vuoto mezzo per tirare a campare bensì nei termini di un coscienzioso far-bene ciò che fa quindi come servizio alla comunità; si comporta nei confronti del prossimo con gentilezza e generosità, trovando i suoi simili qua e là nella metropoli (la ristoratrice-cantante Mama, la libraia che conosce e ama davvero i libri, ecc.), coinvolgendo chiunque incontri nella sua dimensione piena di umanità, anche solo per un attimo, riuscendo persino a far appassionare i giovanissimi all’analogico!

Il protagonista del film vive, da laico, molto vicino all’idea di santa povertà tipica di certi ordini religiosi, d’oriente e d’occidente, lontanissimo dall’avvilente miseria delle masse; esperisce e gusta una solitudine quasi mistica, aperta all’amore per gli altri e alla contemplazione/meditazione dell’Essere, ben diversa dall’isolamento individualistico oggi tanto diffuso e propagandato. Hirayama è insomma colui che getta il seme per un reale modello alternativo d’esistenza, pressoché alla portata di tutti – posto che si sia disposti a dire NO fino in fondo a questo status quo, disinnescando in primis in noi stessi le dinamiche di violenza, dominio e oppressione, maturando una differente forma di socialità, liberandoci nel concreto come nell’intimo delle nostre innumerevoli piccole o grandi avidità, vanità, futilità che ci rendono complici e assieme schiavi del Potere.

Massimiliano Peroni

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