Straordinaria la rimozione, totalmente freudiana, della fragilità di Biden. Essa appare e scompare dalla discussione pubblica occidentale. È qui pleonastico ricordare che non c’è possibilità alcuna di togliersi di dosso l’ombra dell’imperatore che si proietta sulla nostra fetta di mondo. Non c’è proprio verso di poterci escludere dall’obbligo di discutere del nostro essere al di fuori da quell’ombra. Vi siamo nati, vi siamo cresciuti e, probabilmente, vi moriremo. Una forma, adeguatamente razionalizzata, di questa necessità di vivere “sotto gli occhi dell’occidente”, è rappresentata dalla considerazione con cui guardiamo gli uomini del Potere.
Quando ci stupiamo dell’enorme pericolo rappresentato da un presidente di una potenza nucleare che ha sotto i suoi polpastrelli la possibilità di incenerire il mondo pur manifestando ormai quotidianamente i sintomi di un degrado neurologico che se capitasse a noi ci escluderebbe dallo svolgere qualsiasi compito, cerchiamo di rassicurarci con due tipi di considerazione.


La prima: ci sarà sicuramente qualcuno che decide per lui; qualcuno che lo consiglia, qualcuno che lo dirige e lo manovra; fosse quel qualcuno lui stesso o ciò che rimane della sua lunga esperienza politica. Questo è un modo per scrollarci di dosso la sensazione di accettare, per i più diversi motivi, di essere governati da un fool. Così facendo, però, confermiamo non solo che lui sia il folle ma che lo siano gli stessi che lo dirigono, impegnati a manovrare ciò che di per sé non sarebbe manovrabile e quindi riconfermando la struttura essenzialmente folle del potere stesso, che rinuncia a razionalizzare sé stesso e a mettere ordine nel proprio esercizio.


La seconda: sarà pure demente ma è pur sempre il “nostro” demente. Nel senso di un demente riuscito, di un demente “vincente”, che se è giunto là fin dove è giunto è perché se oggi è demente ieri non lo era affatto. Lo sarà diventato e se un demente può essere il Presidente dell’occidente c’è una chance anche per noi. La fragilità esibita ai vertici, così come accade alle star che ammettono di essere malate o decrepite senza muovere un passo fuori dalla scena, non limitano la loro presa sul pubblico, ma continuano ad esercitare il loro fascino fino alla fine. Anzi, rafforzano la tenerezza patologica che le masse proiettano sull’autorità, suoi suoi simboli e sull’ordine che essi garantiscono. E non c’è nessuna, ma proprio nessuna, differenza tra il fascino autocratico e il fascino democratico.


Ci potrà anche essere un calcolo razionale dietro il rifiuto di far decadere l’imperatore dalle sue funzioni, ma, credo, scopo primario di questa ostinazione è la percezione del potere intrinseco alla manifestazione della fragilità, all’esposizione delle difficoltà fisiche del potente, per riaffermare l’“umanità” del potere quanto più questo si esprime nella disumanità delle sue scelte, presenti o potenziali. La debole tenuta psichica di Biden è la forza stessa del suo potere. Un potere che non arretra di fronte a nessun impedimento che giunga dall’esterno della sua funzione. Il “corpo del re” di Ernst H. Kantorowicz, confrontato alla “mente del re” è quasi una bazzecola. Dal corpo sessualmente performante di Berlusconi alla mente disturbata di Biden c’è meno di un passo. Il risultato è lo stesso. Umanizzare ciò che esclude l’umano attraverso il consenso delle stesse vittime.

But the fool on the hill sees the sun going down
And the eyes in his head see the world spinning round.

And nobody seems to like him,
They can tell what he want to do
And he never shows his feelings
He never listen to them,
He knows that they’re the fools.

Lennon McCarthy

Riccardo De Benedetti

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