La guerra è una specie di “giudizio di dio”, sul quale gravano però gli intendimenti degli uomini e quindi, qualsiasi significato si voglia dare a un dio, o agli dèi, che vi intervengono, a diversi e variegati titoli, le conseguenze della guerra saranno tutte a carico degli esseri mortali che l’hanno iniziata. E le conseguenze sono infinite.

Le generazioni penosamente afasiche che ora si affacciano al suo teatro hanno alle spalle ormai solo simulazioni belliche. A partire dalla più importante, quella del 68. Chi l’ha combattuta, in maggioranza, e nei casi meno brutali, era convinta di vivere nelle pagine dei I ragazzi della via Pal. Gli altri, più barbari, agivano nella ripetizione della resistenza; altri ancora, quelli che ora in gran maggioranza la sostengono, sfruttavano l’occasione offerta dal conflitto per la carriera politica. Fiutavano l’aria, o come diceva mio padre, vere facce de cuu de can de caccia, osservavano dove si andava posando lo stendardo, dove sarebbe caduto, dove si sarebbe piantata la bandiera. Ma era sostanzialmente indifferente all’esito della guerra, solo al suo svolgersi come occasione. La guerra garantisce la mobilità sociale. Chi perde si toglie di mezzo. Chi vince rastrella dal tavolo tutte le fiches. La guerra impone il suo di banco. Non è vero che con la guerra tutto è perduto, con le guerre vincono tutte le facce de cuu de can de caccia, e sono numerosissime. Tanto, se non tutto, di guadagnato. 

C’è una destra, o più destre, penose, ridicole, che ancora biascicano l’ideale; che ancora amano, forse ricambiate, il mito della bella morte, dell’eroismo testimoniale. C’è una sinistra, o più sinistre, che ancora biascicano l’ideale; che ancora amano, forse ricambiate, il mito del milite lavoratore o del lavoratore milite, e non sono altro che racket in perpetua lotta per il predominio democratico. Le due polarità che si distribuiscono i gonzi che ci credono sono calamite ancora troppo potenti per lasciare che la limatura di ferro assuma la forme che spetta alle frattaglie della storia: dispersione pulviscolare, caduta vertiginosa senza alcun clinamen nell’eterna siderea cascata del nulla. 

La guerra, che di questa caduta rappresenta lo stadio perfezionato, è pienamente accettata. Accolta ancora come strumento per realizzare una pace mai concepita, mai vista se non come intervallo tra un conflitto e l’altro, ma dando ad intendere, ai sunnominati gonzi, che sarebbe poi stata l’ultima, la definitiva. E in effetti una sua definitività potrebbe sorgere all’orizzonte. Gli strumenti non mancano, le motivazioni pure. Si tratta solo di passare dalla potenza all’atto. E in un mondo fatto di potenza, strutturato come potenza, la stessa realizzazione degli ideali, l’incarnazione dello spirito più elevato, della cultura più sofisticata è destinata a fornire il consenso più convinto alla guerra totale. Viene spazzato via tutto il lessico politico; tutta la malaccorta sequela di teorie, dottrine, istituzioni, consessi, patti, lodi, congressi, stendardi, coccarde, bandiere, intenzioni, assemblee, comitati centrali, segreterie… di fronte alla carneficina contro cui non si leva voce alcuna a morire potrebbero essere le illusioni o meglio quelle che hanno fatto di tutto per sembrare ideali, dottrine ecc. di cui sopra. E questo potrebbe essere un bene, non il sommo bene, ma almeno sarebbero cancellati i presupposti della guerra. Invece, per somma ironia, a cancellarsi sarà, lo è già, l’uomo. 

Le pagine finali delle Parole e le cose di Foucault sono l’agghiacciante descrizione di questa mortifera dissipazione dell’uomo, della sua dispersione. Rinunciando a pensare l’uomo, ridotto ad effetto di parola, si può solo pensare alla sua sparizione, alla sua cancellazione concreta e non c’è nulla di più concreto della guerra. Tratteggiando in poche righe finali l’inutilità stessa del suo lavoro Foucault offre la veridica immagine della guerra presente: “alors on peut ben parier que l’homme s’effacerait, come à la limite de la mer un visage de sable”.

Riccardo De Benedetti 

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