L’uscita di Sound of Freedom, film diretto da Alejandro Monteverde sulla storia vera di un’operazione di polizia contro una rete internazionale di traffico di minori e pedofilia condotta dall’agente Tim Ballard (interpretato da un dolente Jim Caviezel), è stata accolta da una bufera di polemiche, attacchi e boicottaggi da parte dei media mainstream, sia negli Stati Uniti che in Italia. Le accuse sono le solite: il film presenterebbe tesi complottiste legate ad ambienti cristiani e alla destra trumpiana. La conseguenza più o meno non voluta o non contemplata di questa campagna è stata quella di fare di questo il film simbolo della dissidenza, della lotta all’egemonia liberal–woke e al potere politico americano, attualmente in mano ai Democratici di Biden e Kamala Harris, creando a sua volta grandi aspettative.
Da questo punto di vista, Sound Of Freedom potrebbe rappresentare una parziale delusione. Pur affrontando un tema disturbante (a volte in modo molto efficace, altre volte in modo retorico), il film non dice nulla che non sia diventato di dominio pubblico attraverso altri prodotti di intrattenimento o nel medio programma di infotainment di un canale tv generalista. Le “tesi complottiste” fanno riferimento ad allusioni talmente vaghe da somigliare semmai a intuizioni di senso comune (che per favorire il trasporto e lo sfruttamento di migliaia di persone servano ingenti quantità di denaro e, di conseguenza, gente che ne disponga, è un’ovvietà). Non vengono fatti nomi, né citati casi o rapporti.
A livello cinematografico, è un buon thriller popolare. Nulla di più ma neanche nulla di meno. Ovviamente è inutile aspettarsi invenzioni registiche o messa in scena spettacolari, perché, a parte essere un solido poliziesco, l’asset del film è tutto incentrato sull’impegno sociale. Se fosse uscito negli anni ’90, sarebbe stato uno di quei long seller interpretati da Harrison Ford o da Kevin Costner di buon successo al botteghino e trasmesso in tv a cadenza annuale.
Perché, quindi, tutto questo clamore intorno a un prodotto che anche pochi anni fa sarebbe passato inosservato? Per le dichiarazioni pubbliche di Jim Caviezel, in cui avrebbe sostenuto alcune tesi di Qanon? Per il sostegno di Mel Gibson, al momento uno dei principali obiettivi dell’industria cinematografica hollywoodiana? Eppure la presenza di Gina Carano, altra emarginata politica da Hollywood, non è costata alla serie Disney The Mandalorian, di cui era protagonista, lo stesso marchio infamante.
Si potrebbe trovare una spiegazione nella radicalizzazione del progressismo americano (e di conseguenza dei progressisti delle colonie, in primis la nostra) che negli ultimi due anni, con l’ascesa del movimento woke e in seguito alla crisi “pandemica” prima e bellica poi, ha imposto una svolta in senso autoritario e censorio all’industria culturale e dell’intrattenimento. Tuttavia, non sembra sufficiente a comprendere il fenomeno. A voler pensare male, si potrebbe immaginare una gigantesca coda di paglia sul tema pedofilia, e le note voci riguardanti il coinvolgimento di larga parte dell’élite dem nello scandalo Epstein offrirebbero più di un sospetto in merito.
Ma la questione forse riguarda un aspetto ancora più profondo che emerge confrontando Sound of Freedom con un altro film sul tema della pedofilia: Il caso Spotlight. Il film di Tom McCarthy, uscito nel 2015, vinse un Oscar come miglior film e raccontava la vicenda (un’altra storia vera) dei famosi giornalisti investigativi del “Boston Globe” che denunciarono lo scandalo della pedofilia nella Chiesa cattolica. Il film ricevette il plauso unanime per il coraggio e l’impegno, senza che nessuno mettesse in dubbio la veridicità dei fatti, nonostante stavolta nomi, casi e rapporti venissero citati. Tuttavia, in questo caso il vero bersaglio non era la pedofilia ma la Chiesa cattolica. Nel film di Monteverde (film prodotto da una casa di produzione di ispirazione cristiana), il protagonista è dichiaratamente cristiano, cita il Vangelo, e si lascia intendere sia cattolico (nell’allusione a san Timoteo nella medaglietta), e questo rappresenta l’unico “posizionamento” esplicitato.
Che i lib-dem odino il Cristianesimo e la Chiesa (checché ne dica l’attuale Presidente degli Stati Uniti) non è una novità, ma che al di là dei banali schieramenti pubblici ci sia un’ostilità più carsica, profondamente filosofica e spirituale che si esprime in una censura totale, potrebbe essere la vera novità, o piuttosto la rivelazione, di questi tempi.
Serve, tuttavia, uno sforzo ulteriore per opporre all’egemonia nichilista non solo una contro-estetica, ma un’altra estetica che non si limiti a catalizzare temporaneamente i dissidenti contro gli attivisti di sinistra (o di destra) ma faccia esplodere una volta per tutte il fiume sotterraneo del conflitto tra schieramenti che non possono che essere nemici.
Dario Biagiotti