C’è chi considera la guerra come una sorta di grande setaccio della realtà. Un modo come un altro, forse un po’ più crudele, di raffinarla, di riportarla a proporzioni più modeste, controllabili. Operazione di limatura che vede nella scomoda posizione del pezzo di ferro da sagomare le popolazioni coinvolte, tra Marte e Vulcano. Le parole, la retorica, l’appello ai sacri principi di una storia che li ha sempre smentiti, la verbosità stucchevole dell’ipocrisia, la fanno da padrone.


Per chi si oppone alla guerra, il punto di vista dovrebbe apparire diverso. La guerra è uno strumento per riportare coi piedi per terra coloro, le masse amorfe e pur sempre mobilitate della modernità la cui mente vagava ancora nel mito, nell’affabulazione spettacolare, cifra caratteristica dell’occidente. La guerra, ancorché prodotta da una sorta di sonnambulismo, à la Hermann Broch, ne è anche, paradossalmente, l’antidoto. Essa deve riportare la coscienza che abbiamo del mondo alla sua dimensione reale. Si presenta come il reale intrascendibile, l’ultimo orizzonte.

Non è però proprio così. Anche la guerra pare affascinata dalle parole, dalle affabulazioni, dagli stessi simulacri che la producono. Il che significa che là dove la Morte, per il tramite della guerra, che è un darla e riceverla, appare come il vero e unico orizzonte del suo procedere e della sua giustificazione – non pare più accettabile intenderla come uno dei sacrifici richiesti al prolungarsi della vita, al suo estendersi, al suo moltiplicarsi, in quanto essa discende da volontà umane che scaturiscono da una sete di Potenza del tutto innaturale, direi “ideale”, nutrita da profondissimi ideali: democrazia, sviluppo economico, benessere – ebbene, nell’estendersi della guerra le Parole lasciano il posto all’azione, alla violenza. Semplicemente i discorsi non servono più. Vengono abbandonati all’insignificanza. Ed è proprio quello che sta accadendo. C’è un’ansia abnorme, abominevole, di poterne fare a meno che deforma il nostro sentire, la nostra stessa postura quotidiana di fronte agli impegni e alle responsabilità comuni. È un effetto voluto e il primo incedere della guerra accompagnata da sua sorella Morte è questo sconcerto del quotidiano nel quale siamo stati cacciati come patate nel sacco.

Ci accorgiamo allora di come nell’occidente della comunicazione elettrica totale, la Guerra stenta ancora a mostrare nella sua interezza la terribile verità che occulta, le parole giocano ancora il ruolo obnubilante e tossico di cui sono investite quando divengono strumenti di potere. E sempre, in un modo o nell’altro, le parole sono strumento di potere. Sono il Potere! Insieme alle immagini che le accompagnano. Quando rimarremo muti di fronte all’orrore, come, ricordava Walter Benjamin, lo erano i soldati della Grande Guerra che tornavano dalla trincee, allora sarà troppo tardi e ai sopravvissuti verrà riservato il resto che avevano evitato nella guerra a cui avevano partecipato.

Riccardo De Benedetti

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