La filosofia perseguita gli scienziati avevo titolato tempo fa, rilevando l’inutilità del tentativo da parte dei fisici di attenersi – anche dopo l’avvento della quantistica – al rigore dell’argomentazione puramente matematica. Ma ci sono scienziati che invadono direttamente, gagliardamente, il campo della metafisica, costruendo veri e propri sistemi. Uno di questi è Federico Faggin, col suo Irriducibile (Mondadori, 2022).

Per cominciare ridicolizza chi crede che l’intelligenza artificiale possa sviluppare una coscienza.

Lo avevamo detto in mille che l’IA è stupida ma ad affermarlo qui non è il solito umanista reazionario; è il tizio che ha letteralmente inventato il chip analogico, prima, e poi le reti neuronali utilizzando transistor a porta flottante (all’epoca considerate dagli esperti una pessima idea) non prima di aver creato il primo microprocessore e il primo touchscreen. Insomma lui l’ha creata e lui la stronca.

Il punto è che Faggin non è solo un fisico. A un certo punto, dovendo sviluppare le reti neuronali artificiali ha dovuto sporcarsi le mani, pardon il cervello, con la biologia e le neuroscienze, scoprendo che il professore di neuroscienze sulla coscienza ne sapeva meno di lui: “È qualcosa che accade in qualche modo nel cervello – e un giorno la capiremo” affermava l’esperto.

Il materialismo del professore sembrava convincente: sensazioni e sentimenti non sono che un epifenomeno, qualcosa che si produce in qualche modo. Ma il pur materialista Faggin aveva bisogno di una vera spiegazione, di un meccanismo che lo portasse a realizzare un computer consapevole. Mission: impossible.

Per convincersene ha dovuto tuffarsi nella filosofia e nella semiotica, affrontare problemi ontologici, riscoprire i qualia, gli aspetti qualitativi inesprimibili della percezione individuale, e infine riaffermare quello che Leibniz aveva già capito nel Settecento: “Si deve riconoscere che la percezione, e quel che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni meccaniche. Immaginiamo una macchina strutturata in modo tale che sia capace di pensare, di sentire, di avere percezioni; supponiamola ora ingrandita, con le stesse proporzioni, in modo che vi si possa entrare come un mulino. Fatto ciò, visitando la macchina al suo interno, troveremo sempre e soltanto pezzi che si spingono a vicenda, ma nulla che sia in grado di spiegare una percezione”.

Come si vede, nulla di veramente nuovo, a parte il pulpito. Ma non finisce qui; Faggin ha avuto nel frattempo un’esperienza mistica che sembra assomigliare a molte altre: un ampio fascio di luce che sgorga dal cuore e si espande fino ad abbracciare l’intero universo. La consapevolezza profonda, inscalfibile (“quest’esperienza conteneva un senso di verità senza precedenti, perché era vera a tutti i livelli del mio essere”) che quella luce è la sostanza di tutto ciò che esiste, “è ciò che ha creato l’universo partendo da sé stesso. Poi, con immensa sorpresa, riconobbi che quella luce ero io!”. Quello splendore viene percepito a livello emotivo come potentissima sorgente d’amore: “a livello mentale sapevo con certezza che tutto è fatto d’amore”. Faggin, osservatore per eccellenza, ovvero separato, scopre una prospettiva strabiliante: “ora io ero sia lo sperimentatore sia l’esperienza”.

Faggin intuisce che la sua identità è “uno degli infiniti punti di vista con cui Uno – il Tutto, la totalità di ciò che esiste – osserva e conosce sé stesso”. Alle identità coscienti, che definisce Seity, distinte dall’ego, il compito di permettere l’autoconoscenza non solo di sé stesse ma anche di Uno. Ogni nuova esistenza è una parte-intero di Uno ed “è importante sottolineare che conoscere è amare e amare è conoscere”.

Parentesi personale: qui Faggin mi ha catturato. Da tempo covo quella che è più una percezione che una convinzione, una sensazione che ho tardato a formulare verbalmente, per pudore, per gelosia: siamo gli occhi di Dio, il mezzo attraverso il quale contempla la Sua Creazione e se ne compiace.

Benché educato nel cattolicesimo, al quale ciò che ha sperimentato potrebbe benissimo essere ricondotto, lo “Steve Jobs italiano” rapporta il tutto a un panpsichismo già visto, affastellando, come nel peggiore dei “risvegli”, citazioni che vanno da Buddha a Giordano Bruno, da Marco Aurelio ai Sufi, da Eraclito a Goethe, da Huxley a Paracelso, da Plotino a Severino. Avanza anche intuizioni notevoli: a proposito di livelli di realtà, di realtà annidate, intravede zone d’ombra, sia pure in forma astratta, anche nell’Uno, ipotizza che il male non sia una realtà fondamentale ontologica ma una distorsione, una incomprensione, inevitabile nel processo di autoconoscenza; uno degli scopi principali della vita fisica sarebbe quello di comprendere l’origine della distorsione che esiste in ciascuno di noi per eliminarla.

Fin qui, siamo nel campo delle “Illuminazioni”, di un esoterismo che potrebbe essere confinato nel campo degli affreschi suggestivi, ma un fisico non può limitarsi alle Visioni, deve ancorarle alle leggi della fisica. Ed è l’Avvento della quantistica a permetterci finalmente di comprendere l’enigma della vita: i qualia possono essere interpretati come “l’esperienza di un sistema quantistico che si trova in uno stato puro” (il tutto ha a che vedere con un vettore nello spazio di Hilbert, ma non chiedetemi altro) e “richiedono le proprietà singolari e sconcertanti dell’entanglement” (l’entanglement produce correlazioni non-locali istantanee tra due sistemi distanti). A parere di Faggin il motivo principale per cui nessuno capisce la fisica quantistica è “perché descrive il mondo dell’esperienza privata e del libero arbitrio invece di descrivere il comportamento degli oggetti materiali nello spazio-tempo”. L’universo inanimato non è venuto prima, permettendo poi lo svilupparsi della vita ma “deriva da una realtà quantistica più profonda, abitata da enti con coscienza e libero arbitrio”.

L’uomo, infine, come ogni cellula, è un sistema al tempo stesso quantistico e classico. A ciò che vediamo, ai meccanismi biochimici, è sottesa una realtà ineffabile: “Il funzionamento del DNA è inestricabilmente connesso con le proprietà quantistiche delle particelle elementari in un sistema complesso in cui sono presenti sia ordine dinamico sia casualità quantistica”. Faggin afferma che l’uomo è una delle innumerevoli prospettive coscienti tramite cui l’Uno si conosce e si realizza. Ma come fa Uno, il Tutto, a essere dentro ogni sua parte? “Questo è un enigma che ritroviamo riflesso nella matematica dei frattali e nelle proprietà degli ologrammi”.

La conclusione di Faggin è che l’universo inanimato, all’opposto dell’interpretazione corrente, emerge dalle interazioni coscienti e libere delle seity; causa, non effetto. L’universo fisico rappresenta soltanto la danza dei simboli usati dalle seity per comunicare. Ovvero la materia è l’inchiostro con cui la coscienza scrive la sua conoscenza di sé.

Espunto il Caso dall’origine della vita (separata irriducibilmente dall’inorganico) e posta sul trono la Coscienza, siamo autorizzati a pensare di trovarci di fronte a un creazionista; in realtà l’universo di Faggin è in parte darwinista: vi è una gerarchia delle seity, vi è un progresso legato alla scienza e – orrore – le seity potranno evolversi ancor meglio con nuovi tipi di corpi che combinano biologia e robotica.

Peccato che Faggin dimentichi di citare i precedenti: già nel 1952, dopo vent’anni di corrispondenza, Gustav Jung e il fisico Wolfgang Pauli pubblicavano L’interpretazione della Natura e della Psiche. Jung, occupandosi dei fenomeni “sincronistici” che mettono in collegamento un evento interiore, psichico, e un evento esterno, li attribuiva a una dinamica nascosta comune a entrambi, e Pauli rincarava: la realtà è troppo complessa per essere descritta in maniera esaustiva dal principio di causalità. “Osservati a partire da una prospettiva globale, i fenomeni sincronistici e quelli causali potrebbero essere considerati come due lati di un nastro di Moebius”, scrisse in una lettera al fisico Markus Fierz. La realtà indagata dalla fisica, sosteneva, costituisce “una sezione unidimensionale di un mondo bidimensionale dotato di senso, la cui seconda dimensione non può che essere costituita dall’inconscio e dagli archetipi”.

Ma anche Pauli si rifà a degli antecedenti: la disputa tra Keplero e l’esoterista Robert Fludd (siamo nel 1623) nella quale l’astronomo rifiutava l’idea che si potesse avanzare una cosmologia senza una intelaiatura matematica.

Pure Faggin sembra determinato ad ancorare le sue visioni, non dissimili da quelle del Plotino tradotto e amato dal padre, Giuseppe, studioso del platonismo, della tradizione mistica e dell’occultismo, a una rigorosa indagine scientifica. Nel libro, però, non ne ho rintracciate: benché lo scienziato infili ovunque gli arcani della quantistica, ciò che emerge è una visione suggestiva e plausibile, ma non dimostrata. Dopo aver abbracciato il materialismo nella prima parte della vita, scegliendo una formazione da perito industriale, e poi da fisico, quasi per ribellione all’orizzonte umanistico e mistico del padre, al padre il Fisico ritorna. Alla Metafisica mai nominata, che vorrebbe normalizzare, sterilizzare, con la cassetta degli attrezzi scientifici.

La sua cosmologia, stimolante e probabilmente “vera”, nella quale, a partire dal linguaggio, ritroviamo soprattutto quello che la religione ci ha sempre proposto, verrà forse un giorno verificata.

Più probabilmente continueremo a brancolare nella nube della non conoscenza.

Elio Paoloni

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