Il titolo del film è ambiguo, forse ingannevole. Se pure riusciamo ad addentrarci nella vicenda narrata, silenziosa nei suoi presupposti, nei cambi di scena, nelle fisionomie dei personaggi i cui ardui nomi sono complicati da roboanti appellativi (e l’uniformità degli abbigliamenti, anche fuor delle divise, non facilita le cose), in ogni caso la zona d’interesse non è certamente l’area perimetrata, allietata da fiori e piante, dove abita la spensierata famigliola del comandante del campo di concentramento più rinomato della storia nazista.
Non è neppure un richiamo moralistico alla nostra limitata ed egoistica visione del mondo che ci fa ignorare ciò che accade al di là di un muro che separa quel gioioso perimetro da camere a gas e forni crematori.
Insomma, La zona d’interesse non è un atto d’accusa verso la nostra proverbiale indifferenza al male altrui, e non intende scarnificare il male per renderlo ordinario affare per indefessi funzionari governativi; stiamo attenti: nessuna scena mette a tema la vita e la morte nel campo di concentramento attiguo, ve ne sono labili accenni indiretti (la bella piantina del nuovo impianto). Non si vede un solo deportato, un solo vagone ferroviario.
Si rivela, perciò, superfluo ed inutile ogni rinvio, così frequente nella penna dei cinefili, al famoso testo di Hannah Arendt, oppure al ruolo di burocrate del comandante del campo.
Il film è sorprendente, al contrario, perché, a dispetto del titolo, è rivolto a noi spettatori, alla nostra inesplorata fisiologia, alla nostra effettiva zona d’interesse.
È stato sufficiente per il regista (e sceneggiatore) alzare un muro, neppure tanto alto, intorno alla residenza di Rudolf Höss, limitare il febbrile lavoro del campo di concentramento a qualche fumata dai camini, un po’ di urla e rumori di vario genere, e ad un reperto rinvenuto nel fiume, per circoscrivere la nostra attenzione solo ed esclusivamente alle più classiche dinamiche di quella famiglia: moglie/marito, madre/figlia, genitori/figli, padroni/servi, uomo/ambiente naturale. Guardando il film siamo interessati a ciò che accade nell’ambito di questi rapporti, e a nient’altro (se non ci aggiungiamo ciò che il regista non ci propone).
In altre parole, gli eventi tragici del campo di concentramento sono a portata d’orecchi e noi comunque li conosciamo a menadito da tempo, è vero, ma il regista ci racconta un’altra storia, quella della famiglia Höss, sicché a noi che andiamo al cinema, che conosciamo i meccanismi interni della narrazione filmica, e che ci aspettiamo una qualche svolta anche minima, come in ogni buona storia, alla fine partecipiamo (emotivamente?) all’unico punto di rottura di quella tenera pace famigliare: il trasferimento di Rudolf dal campo di concentramento per un altro incarico (sembra di maggiore portata).
L’unica vera scena drammatica del film è lì, nella discussione tra Rudolf e la moglie in ordine al trasferimento, perché è in quel punto esatto, diventato nevralgico, che si rompe il sogno coltivato da entrambi nell’adolescenza, e nello stesso tempo è lì che si consumano inutilmente gli sforzi compiuti per realizzare quel sogno così reale, e a noi spettatori interessa conoscere l’esito di quel dramma, perché in fondo aspiriamo sempre ad un lieto fine.
E così sarà dal momento che, quando ormai sembrava impossibile, un fulmineo cambio di strategia a più alti livelli ricolloca il comandante ad Auschwitz presso quella agognata residenza famigliare, e Rudolf tornerà ad essere felice (sono felice come un bambino, dirà entusiasta alla moglie al telefono).
Eppure il sogno e il suo cono d’ombra sono ormai spezzati, nulla sarà più come prima, e di fronte alla notizia la moglie di Rudolf reagisce con freddezza, quasi indifferenza.
Siamo fatti così: esposti alle infinite potenzialità offerte dall’esterno, preferiamo ritagliarci la personale zona d’interesse allo stretto recinto dei nostri desideri più concreti, a quei sogni che sappiamo di poter realizzare, perché fuori da essi esiste una realtà vasta e pericolosa che ci aggrada poco e niente, e ogniqualvolta questa insidiosa realtà si impone con tutta la sua forza, il mondo ci crolla addosso, definitivamente.
Ed è proprio per questo motivo che guardando La zona d’interesse siamo in grado di seguire le gesta di Rudolf e famiglia, e nient’altro: il cinema, sogno per antonomasia (come il romanzo), è in grado di farci appassionare alle gesta di un qualsiasi personaggio, persino di quelli che abitano la tradizionale oasi dentro un gigantesco orrore.
Michele Mocciola