La decisione di raggruppare le ultime due puntate del Festival in una sola pagina di diario si deve a due ragioni: la prima è che le si possono considerare una sola unica puntata divisa in due manche, in ciascuna delle quali si sono esibite la metà dei cantanti in gara; la seconda è che poco di diverso c’è da dire rispetto alla prima giornata. Le canzoni si sono pigramente riproposte con l’unica differenza del rilievo dato dagli artisti ai rispettivi “messaggi” di impegno politico/sociale di cui si sono fatti sponsor (perlopiù riguardanti i soliti diritti civili, le minoranze, la guerra, le morti sul lavoro – insomma il medio programma elettorale della sinistra di governo). Non menzioneremo, poi, le solite polemiche imbarazzanti tipiche della kermesse, che in questo caso hanno riguardato John Travolta e il suo ballo del qua qua, lasciando che siano le trasmissioni pomeridiane a occuparsene.

L’aspetto più interessante di queste due tornate è nel fatto che la performance musicale nettamente più rilevante l’abbia finora offerta Russell Crowe con la sua band. L’attore/cantante neozelandese ha eseguito un brano rock blues che, sebbene un po’ troppo debitore di Come Together dei Beatles, ha marcato una netta separazione dagli avanzi di Tik Tok o karaoke sentiti fino a quel momento. Un cambio di passo in groove, suoni, modo di cantare (non tanto di Crowe ma delle coriste), concessioni a piccole improvvisazioni, finali lunghi. 

L’esterofilia viene sempre tirata in ballo in questi casi, ma c’è di più. È un altro il motivo per cui tutti sappiamo che la musica anglosassone (soprattutto se di derivazione afro-americana) abbia un superiore potere attrattivo della canzone leggera italiana: è perché la prima è, per quanto moderna e derivante da forme degradate, legata alla religione (il protestantesimo americano e inglese – si pensi agli spirituals) quindi alla vocazione ancestrale della musica, mentre la seconda è legata al teatro, quindi a una funzione ancillare e decadente.

La verità è che gli italiani non amano davvero la musica, come non amano le arti, perché l’unica forma espressiva che conoscono è quella teatrale. Beninteso non quella dell’alta drammaturgia, ma quella popolare della farsa e del melodramma. E le canzoni di Sanremo, al netto degli aggiornamenti elettronici, di Tik Tok e della simil-pseudo-trap, continuano a dimostrarlo. I cantanti sul palco, vecchi o giovani, sono lì a interpretare un ruolo, da vecchie dive prostituite quali sono, e il pubblico ama più di tutto sganasciarsi o chiagnere con quell’eterna fissazione per i testi, la cui importanza supera la più bella o la più brutta scelta di note.

7 Replies to “Diario del Demeter: il reportage del Festival di Sanremo 2024 (giorno 2 e 3)”

  1. Come richiesto dall’autore dell’articolo, posto due miei commenti presenti su fb.

    La canzone italiana non esiste piu dagli anni ’60. È cambiata (e non in meglio) su influenza di quella anglosassone. In generale rimane poco da fare distinguo (nel particolare è sempre possibile). Non che prima la canzone italiana fosse una meraviglia, ma trovo più gradevole una canzonetta cantata da Gigli agli urlatori successivi. Sull’estraziione dei vari generi, penso non sia rimasto molto e del retaggio spirituale da una parte, e del teatro dall’altra, se non espressioni grottesche (da entrambi i fronti) tra cui quelle già evidenziate dall’articolo.
    Sul resto, beh, sono di Sanremo e odio il festival quindi ogni critica l’accolgo volentieri

  2. Dario Biagiotti che non la condividi, è un conto, che non sia approfondita (la visione generale, non questa) dal lato tecnico teorico, essendo io un musicista di professione, è un tantino improbabile. La scorsa volta avevo anche provato ad argomentare, ma ho ricevutio solo degli sfottò (ammettendolo pure perché, stringi stringi, il senso è che erano dovuti), e se non ti conoscessi un poco penserei dovuto a delle lacune (soprattutto dopo che alcune ie affermazioni sono state cassate come supercazzole). Più facile ricevere commenti da chi non può far altro che annuire.
    Sono i giudizi a essere tagliati con l’accetta, forse, ma i giudizi sono personali e su questo ti faccio notare che anche i tuoi sono tagliati con l’accetta, compreso in questo articolo (o nel precedente su Mancuso, dicendo che non ha mai suonato una nota interessante, o bianco o nero insomma), solo tagliati da un lato diverso dal mio; non per questo mi permetto di considerarti snob e superficiale. Questo articolo però sì, è decisamente poco approfondito visto che prende la canzone italiana come un dato di fatto senza considerare, nemmeno implicitamente, la sua totale e repentina (e costante pure) trasformazione. Il festival non celebra affatto la canzone italiana (che, ripeto, non apprezzo particolarmente, ma non è questo il punto), che è morta e sepolta, e non celebra forse nemmeno l’italianità:
    Il suo format è cambiato negli ultimi 20 anni, raccogliendo spre più tratti dello show business americano. Lo sganascia e piangi ora non è quello della farsa, ma quello del talent o altri format americani, basati proprio sull’alternanza parossistica tra momenti grotteschi e momenti patetici. L’espressione italiana (in bene o in male) del festival aveva altri connotati. Forse ora esprime l’italiano di oggi, plasmato comunque sul modello americano.
    Criticare il festival in fondo è facile, essendo un sacco pieno di merda

    1. Come promesso, cerco di dare qui un risposta più approfondita.
      L’approccio alla canzone in Italia ha una sua specificità a prescindere da cambiamenti esteriori. Poco importa se alle chitarre con corde in nylon si sono sostituite le stratocaster HSS con il chorus e, ancora in seguito, i pad e le drum machine. Rimane una costante, che è la focalizzazione sul testo e sull’interpretazione del cantante. Questa corrisponde, in primis, a un’identificazione tra divo e capocomico e, in secondo luogo, all’identificazione con lui del suo pubblico. C’è una evidente continuità con elementi ottocenteschi (e precedenti) dell’opera e dell’operetta, in cui la musica ha ruolo secondario (come ho detto, ancillare), inquadrato in una rigorosissima scrittura in cui, per esempio, (relativo) spazio improvvisativo è permesso solo al cantante.
      Credo che non notare questi elementi di continuità, che nell’attuale decadenza semmai si disvelano definitivamente in una marcescenza sempre loro appartenuta, sia una gigantesca miopia. Mi sembra invece che sia tu a liquidare come brutto o decadente qualcosa semplicemente per la sua apppartenenza all’epoca che lo ha prodotto o per gli strumenti con cui è stata realizzata. Mettere nello stesso calderone gli elettrofoni e il digitale delle DAW e delle IA è fuori della realtà prima che sbagliato, e infatti è lo stesso argomento utilizzato da chi del transumano musicale è apologeta. Si va oltre la questione estetica e si entra in quella gnoseologica e ontologica. È anche la ragione per cui uno come Brian Eno, oggettivamente un genio della musica del ‘900, sia un nemico da combattere.
      Ma tornando sul tema, l’uso degli strumenti digitali, più che creare cesure nette fanno da agenti mutanti di organismi viventi e preesistenti.
      E il preesistente (o il persistente) in Italia è proprio l’elemento scenico, nel senso di messinscena. Il cantante mattatore, giullare o vate a seconda dei casi.

      Dall’altro lato, la musica moderna anglosassone, in special modo afroamericana, ha una derivazione spirituale che non è solo opinione analitica ma ineludibile fatto storico, che piaccia o meno il post-protestantesimo americano (e ti assicuro che a me non piace). Il ruolo dell’artista e non solo del cantante ma del musicista in generale non capocomico ma pastore/predicatore si evidenzia nel ritorno e nell’espansione dell’improvvisazione (elemento che noi europei avevamo completamente smarrito nella stessa epoca), che diventa terreno in cui si esprime l’estro o il “carisma”. Troppo facile liquidare come insignificanza questa enorme rivoluzione musicale (checché se ne pensi, maggiore della dodecafonia, e non a caso anche quella che ha prodotto maggiori eredità) e anche molto presuntuoso (prima di giudicare jazz, blues e improvvisazione sarebbe il caso almeno di aver provato a metterci sopra le mani).

  3. In musica, dove c’è la parola si dà l’integrazione tra questi elementi, e in vario modo la musica diviene ancella della parola. Dal gregoriano agli spirituals, dal madrigale all’opera, dai trovatori ai cantautori, che sia religiosa (anzi, soprattutto) o profana, che sia italiana o anglosassone, che sia De Andrè o Bob Dylan. L’attenzione per i testi è sempre un elemento fondamentale, e conosci benissimo l’importanza che hanno avuto in molti gruppi pop-rock.
    Un aneddoto che mi sfreccia ora in mente: a Freddy Mercury rimproveravano che le loro canzoni fossero poco impegnate politicamente, e lui rispondeva che preferiva parlare d’amore.
    Dato ciò, alla canzone italiana non è rimasta alcuna prerogativa in grado di distinguersi – se non vagamente (o forzatamente, come nella tua analisi), quindi su questo fronte non posso far altro che ribadire quanto ho già affermato. Se la mia ti sembra miope, la tua mi sembra strumentale alla propria tesi.
    (Ah, per inciso, alle chitarre con corde in nylon non si è sostituito nulla, perché la chitarra italiana del primo novecento montava corde in acciaio).

    La focalizzazione sull’interpretazione, l’identificazione tra divo e pubblico, sono pienamente presenti nella stragrande maggioranza della musica di consumo anglosassone a partire dal dopoguerra, con tutti i suoi generi e sottogeneri. Per non parlare dell’aspetto teatrale, dove ad ogni genere corrisponde un preciso look da sfoggiare, personaggi precisamente costruiti nelle fattezze e nelle movenze, un’identificazione totale tra musica e stile, sia dei cantanti che dei fruitori, tutta roba che ha raggiunto tratti grotteschi (per chiunque non ne sia ssuefatto) nel giro di breve proprio in area anglosassone e oltreoceano, e di portata a noi sconosciuta fino alla loro importazione (sì, lo so, è stata a tratti grottesca anche l’opera italiana). Ognuno a proprio modo, a volte meno come nel blues, a volte di più come nel rock’n roll, nel rock, nel metal… Dunque le critiche mosse alla canzone italiana (comunque morta e sepolta) riguardo al ruolo secondario della musica dovuto al retaggio teatrale operistico – per quanto anche condivisibili – possono, mutatis mutandis, essere rivolte anche ai generi e sottogeneri di cui ti fai apologeta. Ed è qui il punto dolente: le critiche che tu rivolgi facilmente tornano indietro come un’eco.

    Il probolema non è di certo il giudizio soggettivo o i gusti. Io posso reputare decadente ciò che per te è sfavillante e viceversa, per me non è questo il punto. Non ho un genere da difendere (avrei molto da dire sulla musica classica, l’opera la mal digerisco, l’operetta poi la odio: guarda, ci trovassimo a tu per tu probabilmente converremmo su molte cose). Suono quello che reputo di valore secondo il mio criterio di giudizio (che puoi non condividere), ma solo se mi viene bene e so di potermi esprimere convenientemente, quindi ho un repertorio legato ad un periodo e a una poetica. Ecco, tu oltre a ciò cerchi di fare apologia tendenziosa utilizzando una retorica che potrebbe essere rivolta contro di te senza nemmeno troppi aggiustamenti.
    Da quel che dici hai nemici da combattere (l’hai affermato, non lo dico io); io ho deposto le armi, ma per certi versi il sentire non è del tutto dissimile. Però fin da subito hai visto in me qualcosa che poteva infastidirti, ma non c’è nulla dei miei argomenti che possa essere utilizzato dai transumanisti musicali.

    Hai tirato fuori alcuni concetti da me esposti in discussioni di qualche tempo fa, secondo convenienza. Ci sta, ma permettimi di precisare allora la mia posizione. Non mi balza in nessun luogo del cranio di mettere sullo stesso identico piano l’AI ad un qualsiasi elettrofono. Ma penso di aver intuito a quale discussione ti riferisci. Quello che volevo dire, e che ho già sottolineato, è che tu avanzi critiche alla post modernità mentre l’arte a cui ti dedichi ne è intrisa fino al midollo. Infatti la post modernità corrisponde alla seconda metà del Novecento e investe pienamente la “tua” musica (sì, mantiene dei retaggi, ci mancherebbe… vale per tutto), e se tale appellativo non riesci a vestirlo, non per questo puoi scrollartelo di dosso riversandolo su ciò che segue (che è certamente e drammaticamente peggio, e anche qui possiamo convenire). La sostanza di ciò che viene oggi conduce al post-umanesimo, quindi: che Dio ce ne scampi! Vogliamo trovare un terreno comune di accordo? Eccolo.

    Parlando della derivazione spirituale della musica moderna anglosassone, non posso sorvolare placidamente come fai tu sulla questione del neo-protestantesimo americano, che è la deriva decadente di una distorsione (protestantesimo) e, a seconda della visione, a sua volta di un’ altra distorsione (sono Ortodosso, quindi per me i passaggi potrebbero essere tre, ma vanno bene anche due visto che tendo piuttosto a difendere il cattolicesimo anziché avversarlo, e poi apprezzo moltissimo la musica sacra cattolica fino al barocco escluso). Non è che “spirituale” = bello, buono e genuino a prescindere, o potente, espressivo e comunicativo (o qualsiasi altro bell’aggettivo), soprattutto a partire dalla decadenza spirituale occidentale che tra riforma e controriforma ci ha proiettati verso il baratro. Stiamo parlando del protestantesimo DEL protestantesimo, per giunta americano! Il giudizio di merito sull’arte non può non ternerne conto. Certo, se nel bene o nel male dipende dal criterio, capisco che sia soggettivo, ma non puoi chiedermi di sorvolare con “piaccia o meno”. Infatti, proprio come nell’analogia pastore/predicatore-musicista da te suggestivamente portata, i musicisti si son fatti sacerdoti del peggior degrado (come nel protestantesimo carismatico), qui artistico – e non solo – là spirituale – e non solo. Per me, s’intende. Tu probabilmente troverai in questo delle possibilità che possono essere veicoli di valore. Comprendo, ma non condivido. Però ti devo dar ragione, la tua esegesi qui non fa una grinza (e anzi, l’ho trovata interessantissima, sul serio), solo che il giudizio di merito è opposto al tuo.
    Sull’improvvisazione: In europa l’improvvisazione aveva raggiunto vertici impressionanti, mantenuta fino ai primi dell’Ottocento, ma in realtà per tutto l’Ottocento (ci sono registrazioni – o rulli, non ricordo – di Albeniz davvero interessanti), solo aveva tratti totalmente diversi. Ma questo lo sappiamo entrambi.
    Comunque, penso abbiamo avuto entrambi modo di esprimerci per bene. Ho capito le tue posizioni, spero tu altrettanto di me: su alcune cose sono d’accordo, su altre in parte, altre ancora per nulla. Non è certamente questione di superficialità, forse dipende in parte dall’estrazione, in parte dalla forma mentis o dalla sensibilità. Mi hai anche offerto spunti interessanti di riflessione (davvero l’analogia pastore-musicista è tanta roba). Quindi, per cortesia, cerchiamo di non prenderla più troppo sul personale.
    Buona musica.

  4. In musica, dove c’è la parola si dà l’integrazione tra questi elementi, e in vario modo la musica diviene ancella della parola. Dal gregoriano agli spirituals, dal madrigale all’opera, dai trovatori ai cantautori, che sia religiosa (anzi, soprattutto) o profana, che sia italiana o anglosassone, che sia De Andrè o Bob Dylan. L’attenzione per i testi è sempre un elemento fondamentale, e conosci benissimo l’importanza che hanno avuto in molti gruppi pop-rock. Un aneddoto che mi sfreccia ora in mente: a Freddy Mercury rimproveravano che le loro canzoni fossero poco impegnate politicamente, e lui rispondeva che preferiva parlare d’amore. Dato ciò, alla canzone italiana non è rimasta alcuna prerogativa in grado di distinguersi – se non vagamente (o forzatamente, come nella tua analisi), quindi su questo fronte non posso far altro che ribadire quanto ho già affermato. Se la mia ti sembra miope, la tua mi sembra strumentale alla propria tesi. (Ah, per inciso, alle chitarre con corde in nylon non si è sostituito nulla, perché la chitarra italiana del primo novecento montava corde in acciaio). La focalizzazione sull’interpretazione, l’identificazione tra divo e pubblico, sono pienamente presenti nella stragrande maggioranza della musica di consumo anglosassone a partire dal dopoguerra, con tutti i suoi generi e sottogeneri. Per non parlare dell’aspetto teatrale, dove ad ogni genere corrisponde un preciso look da sfoggiare, personaggi precisamente costruiti nelle fattezze e nelle movenze, un’identificazione totale tra musica e stile, sia dei cantanti che dei fruitori, tutta roba che ha raggiunto tratti grotteschi (per chiunque non ne sia ssuefatto) nel giro di breve proprio in area anglosassone e oltreoceano, e di portata a noi sconosciuta fino alla loro importazione (sì, lo so, è stata a tratti grottesca anche l’opera italiana). Ognuno a proprio modo, a volte meno come nel blues, a volte di più come nel rock’n roll, nel rock, nel metal… Dunque le critiche mosse alla canzone italiana (comunque morta e sepolta) riguardo al ruolo secondario della musica dovuto al retaggio teatrale operistico – per quanto anche condivisibili – possono, mutatis mutandis, essere rivolte anche ai generi e sottogeneri di cui ti fai apologeta. Ed è qui il punto dolente: le critiche che tu rivolgi facilmente tornano indietro come un’eco. Il probolema non è di certo il giudizio soggettivo o i gusti. Io posso reputare decadente ciò che per te è sfavillante e viceversa, per me non è questo il punto. Non ho un genere da difendere (avrei molto da dire sulla musica classica, l’opera la mal digerisco, l’operetta poi la odio: guarda, ci trovassimo a tu per tu probabilmente converremmo su molte cose). Suono quello che reputo di valore secondo il mio criterio di giudizio (che puoi non condividere), ma solo se mi viene bene e so di potermi esprimere convenientemente, quindi ho un repertorio legato ad un periodo e a una poetica. Ecco, tu oltre a ciò cerchi di fare apologia tendenziosa utilizzando una retorica che potrebbe essere rivolta contro di te senza nemmeno troppi aggiustamenti. Da quel che dici hai nemici da combattere (l’hai affermato, non lo dico io); io ho deposto le armi, ma per certi versi il sentire non è del tutto dissimile. Però fin da subito hai visto in me qualcosa che poteva infastidirti, ma non c’è nulla dei miei argomenti che possa essere utilizzato dai transumanisti musicali. Hai tirato fuori alcuni concetti da me esposti in discussioni di qualche tempo fa, secondo convenienza. Ci sta, ma permettimi di precisare allora la mia posizione. Non mi balza in nessun luogo del cranio di mettere sullo stesso identico piano l’AI ad un qualsiasi elettrofono. Ma penso di aver intuito a quale discussione ti riferisci. Quello che volevo dire, e che ho già sottolineato, è che tu avanzi critiche alla post modernità mentre l’arte a cui ti dedichi ne è intrisa fino al midollo. Infatti la post modernità corrisponde alla seconda metà del Novecento e investe pienamente la “tua” musica (sì, mantiene dei retaggi, ci mancherebbe… vale per tutto), e se tale appellativo non riesci a vestirlo, non per questo puoi scrollartelo di dosso riversandolo su ciò che segue (che è certamente e drammaticamente peggio, e anche qui possiamo convenire). La sostanza di ciò che viene oggi conduce al post-umanesimo, quindi: che Dio ce ne scampi! Vogliamo trovare un terreno comune di accordo? Eccolo. Parlando della derivazione spirituale della musica moderna anglosassone, non posso sorvolare placidamente come fai tu sulla questione del neo-protestantesimo americano, che è la deriva decadente di una distorsione (protestantesimo) e, a seconda della visione, a sua volta di un’ altra distorsione (sono Ortodosso, quindi per me i passaggi potrebbero essere tre, ma vanno bene anche due visto che tendo piuttosto a difendere il cattolicesimo anziché avversarlo, e poi apprezzo moltissimo la musica sacra cattolica fino al barocco escluso). Non è che “spirituale” = bello, buono e genuino a prescindere, o potente, espressivo e comunicativo (o qualsiasi altro bell’aggettivo), soprattutto a partire dalla decadenza spirituale occidentale che tra riforma e controriforma ci ha proiettati verso il baratro. Stiamo parlando del protestantesimo DEL protestantesimo, per giunta americano! Il giudizio di merito sull’arte non può non ternerne conto. Certo, se nel bene o nel male dipende dal criterio, capisco che sia soggettivo, ma non puoi chiedermi di sorvolare con “piaccia o meno”. Infatti, proprio come nell’analogia pastore/predicatore-musicista da te suggestivamente portata, i musicisti si son fatti sacerdoti del peggior degrado (come nel protestantesimo carismatico), qui artistico – e non solo – là spirituale – e non solo. Per me, s’intende. Tu probabilmente troverai in questo delle possibilità che possono essere veicoli di valore. Comprendo, ma non condivido. Però ti devo dar ragione, la tua esegesi qui non fa una grinza (e anzi, l’ho trovata interessantissima, sul serio), solo che il giudizio di merito è opposto al tuo. Sull’improvvisazione: In europa l’improvvisazione aveva raggiunto vertici impressionanti, mantenuta fino ai primi dell’Ottocento, ma in realtà per tutto l’Ottocento (ci sono registrazioni – o rulli, non ricordo – di Albeniz davvero interessanti), solo aveva tratti totalmente diversi. Ma questo lo sappiamo entrambi. Comunque, penso abbiamo avuto entrambi modo di esprimerci per bene. Ho capito le tue posizioni, spero tu altrettanto di me: su alcune cose sono d’accordo, su altre in parte, altre ancora per nulla. Non è certamente questione di superficialità, forse dipende in parte dall’estrazione, in parte dalla forma mentis o dalla sensibilità. Mi hai anche offerto spunti interessanti di riflessione (davvero l’analogia pastore-musicista è tanta roba; bizzarra e poco significativa invece quella tra musicista e capocomico). Quindi, per cortesia, cerchiamo di non prenderla più troppo sul personale. Buona musica.

    1. Provo a rispondere per punti:
      1) non è sempre come dici, a proposito del rapporto tra musica e “testo”. Soprattutto per quanto riguarda l’aspetto liturgico e spirituale. Non c’è ancillarità ma compenetrazione di segni, a tale parola corrisponde tale nota e solo tale nota, in un abbraccio tra significante e significato. La differenza con il teatrino di cui si sta parlando è in questo: non veicoli di un qualsiasi messaggio, sia esso politico o emotivo, ma sintesi della Parola, e in questo è ancora più comprensibile l’invito di Sant’Agostino a pregare cantando (o cantare pregando).
      2) la conferma della natura teatrale della canzone italiana, in realtà, è implicita anche nella derivazione che osservi negli spettacoli televisivi americani degli ultimi vent’anni. Quel ripiegamento sul testo e sull’impostura della narrazione dell’interprete arriva in un momento in cui il contenuto musicale viene sovrapposto a una struttura drammaturgica che è quella del talent. In un paradossale cortocircuito, si potrebbe dire che, al contrario, non è la musica italiana che si è americanizzata subendone gli stereotipi (o meglio, sì, è successo anche questo, anzi soprattutto questo, ma in altri aspetti, diversi da quello in discussione) ma la musica anglosassone che ha fatto entrare il teatro, o meglio la drammaturgia, nella musica e ha lasciato alla mutazione genetica di agire.
      3) dici che non è che tutto ciò che è spirituale = bello buono. Insomma… Considerando che la società in cui stiamo fa da almeno un secolo in mezzo in tutti i modi per amputarla la nostra parte spirituale. E mi soprende che ti sfugga che, proprio perché quella spirituale è una realtà, ci si fanno i conti che ci piaccia o no, che ci crediamo o no. Puoi credere che non esista un treno merci che viene verso di te mentre stai seduto sui binari, ma con la sua esistenza ci farai i conti quando ti arriverà addosso. Essa quindi, essendo consustanziale all’esistenza umana, esce fuori nelle espressioni artistiche umane, anche quando sono derelitte o geneticamente modificate in mostruosità. Compito nostro dovrebbe essere proprio discernere il grano dall’oglio, perché questo dovrebbe far parte della nostra battaglia (e, no, io non depongo le armi e non le deporrò mai).
      4) Nella decadenza spirituale ci stiamo dentro TUTTI fino al collo. Compresi tu e io, che ci stiamo aggrovigliando e dibattendo come naufraghi in mare aperto. Banalmente, perché ci è stato dato di nascere e vivere in questa epoca e in questa parte di mondo. Ancor più banalmente perché siamo soggetti al peccato originale. E la nostra è una lotta in primis interiore per riconoscere questa condizione e con-vertirci. Ma la con-versione non arriva con mezzi del passato o con tentativi di restaurare ciò che non è più o rimpiangendo bei tempi andati, ma con ciò che disponiamo e, semmai, vivificando la sostanza buona, che è ciò che rimanda (anche per vie traverse) alla Verità, e trasmettendola nel modo più comprensibile possibile a chi arriverà dopo di noi.

      Detto questo, ringrazio io te per questo dibattito. Niente di personale, ovviamente, ma il normale scaldarsi quando si parla di argomenti a cui si tiene molto. E concordo che sono abbastanza sicuro che sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono.
      Un abbraccio!

  5. 1 Per quanto riguarda la compenetrazione musica-testo dovresti allora guardare alla musica bizantina o gregoriana (ma credimi anche quella polifonica fiamminga) perchè altrove oggi è lo stesso mare inquinato in cui stai cercando di scorgere isole nelle placche di plastica galleggiante. E da qui mi collego al punto 2: che tu cerchi di vedere a tutti i costi (anche al costo di ammettere possibili paradossi) contaminazioni in una direzione, o io nell’altra, la verità è che oggi assistiamo a un degrado e un’omologazione verso il basso che è proprio il risultato di quel post-modernismo da cui cerco di stare alla larga. Salto quindi al punto 4: I mezzi da utilizzare li detta il mondo; io invece mi sento libero di attingere dove scorgo bellezza e verità secondo ciò che sono in grado di vedere; non faccio operazioni nostalgiche di un passato che tra l’altro non ho mai vissuto.
    Punto 3. Riconosco espressioni spirituali ancora vive oggi, praticate ad esempio nella Chiesa Ortodossa, e posso sentir vive in me anche quelle del passato (essendo la nostra Tradizione in fondo non è mai morta e può essere sempre fatta riemergere, non è un cadavere putrefatto), e le pratico in Chiesa Cattolica quando ne ho occasione. E riguardo quest’ultima, molta gente semplice e certamente non abituata a certa musica e a una certa ritualità, confida di sentire un richiamo al sacro e al bello di cui non avevano contezza, con una forza particolare proprio durante queste funzioni. Quindi anche se riconosco la consustanzialità di cui parli nell’espressione artistico spirituale di ogni genere, non mi sento obbligato a seguire ciò che ritengo “derelitto o geneticamente modificato in mostruosità”. Il mio deporre le armi sott’intende la rinuncia alla battaglia d’avanguardia perché la reputo poco proficua oggi. Sarebbe come scendere coi forconi quando dall’altra parte hanno droni e bombe atomiche. Uso i mezzi che so di poter utilizzare bene cercando di offrire verità e bellezza come posso e quando posso, e rigettando nei limiti del possibile ciò che ritengo sospinga dall’altra parte. Alla fine la battaglia come dici tu è prima di tutto interiore, per questo ribadisco ognuno sceglie i suoi mezzi.
    Un piccolo appunto sulle analogie del tuo precedente messaggio, su cui ho riflettuto ancora.
    L’improvvisazione è un aspetto dell’arte, e quindi della musica. E’ una base importante anche del fare teatro (chiunque faccia teatro si cimenta fin da subito). Questo per te lascia l’improvviszione appannaggio del divo-cantante-capocomico, ma in realtà In Europa si è affievolita a causa dell’aberrazione del turbo concertismo e dell’iperspecializzazione, non di certo a causa dell’opera (che c’è ben da prima senza per questo entrare in contrasto con la musica “assoluta”, checché ci abbia provato Wagner con le sue manie). L’improvvisazione nella musica americana era presente prima ancora nel folk nord europeo, da cui in parte deriva; In generale l’improvvisazione era presente in tutta europa e in ambito profano. Vedere nell’improvvisazione della musica anglosassone un legame prevalente, o unico, con l’aspetto del predicatore mi suona esasperato: l’analogia quindi improvvisazione-predicatore da una parte, e cantante-capocomico dall’altra, sono, per quanto suggestivi, dei collegamenti arbitrari che trovano corrispondenza piuttosto nella natura comune delle arti. Poi è comprensibile che ognuno ponga l’accento laddove il suo sentire lo porta.
    Sì, sostanzialmente sono più le cose che ci uniscono. Differiamo nella forma.
    Ciao!!

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