San Francisco, 1942: alcune bambine della scuola pubblica, di origine giapponese, recitano il Pledge of Allegiance o giuramento di fedeltà alla bandiera Usa. Alcune di loro saranno ricollocate e internate nei cosiddetti campi di reinsediamento, durante tutto il periodo della Seconda Guerra Mondiale (Fotografia di Dorothea Lange).

Ho precedentemente pubblicato una nota su un fenomeno che ho chiamato dei coloni senza casa, la mia teoria o spiegazione sul perché i coloni siano sempre spaventati e violenti (perché non sono mai a casa).

Voglio espandere ed esplorare ulteriormente questo concetto e parlare di identità, o più precisamente, identità nativa in quanto opposta ad identità colonizzatrice. Ciò può aiutare a spiegare qualcosa che si annida piuttosto in profondità all’interno della nostra cultura, ma allo stesso tempo a leggere l’attuale situazione geopolitica come una crisi dell’identità colonizzatrice.

Ai fini di questo argomento userò l’America come esempio, perché essa rappresenta probabilmente il più vasto progetto coloniale generalmente noto, ma anche perché ne conosco un po’ la storia e la cultura. Ciò che dirò vale in assoluto anche per Israele, tuttavia sono certo che può essere corroborato dalle esperienze di molti altri luoghi.

Avete mai fatto caso al peso che hanno i grandi documenti di fondazione americani non solo sulla politica e la coscienza politica, ma anche sulla cultura americana in generale? Avete mai visto un altro paese dove la bandiera nazionale sia tanto venerata, esposta ovunque come un elemento imprescindibile e dove l’inno nazionale faccia parte della vita di tutti i giorni? Come mai? Perché mai la Costituzione Americana, il Federalista, la Dichiarazione di Indipendenza, il Patto del Mayflower o Senso comune di Thomas Paine rivestono così tanta importanza? E, cosa altrettanto importante, perché nessuna comunità nativa su questo pianeta dispone di una serie simile di documenti costitutivi? Perché, loro, non hanno padri fondatori? Perché tutti quei selvaggi non apprezzano la bellezza di un tale mito ingegnerizzato? Mancano di tutto ciò, certamente, né ne subiscono il fascino. Il motivo è che i nativi e le loro comunità non hanno mai avuto bisogno di fabbricare un’identità collettiva. Per i nativi è molto semplice e naturale sapere chi sono. Il loro senso di sé collettivo lo assorbono dalla famiglia e dalla comunità, dalla lingua e dal paesaggio. Scorre e si forma in modo del tutto naturale. Ai nativi non serve che si spieghi loro formalmente e ripetutamente chi sono; cosa che invece ai colonizzatori occorre sempre. Per usare un linguaggio filosofico familiare, direi che l’identità nativa è a posteriori in natura, mentre l’identità colonizzatrice è a priori. I nativi sanno chi sono sulla base di un’esperienza comune, condivisa e commutativa, espressa più nell’abbigliamento, nella musica, nel cibo e nell’arte che in argomentazioni dialettiche. I coloni sanno chi sono, se mai lo sanno (ma non lo sanno, perché non possono saperlo), perché gli è stato detto che questi e quei valori sono ciò che li rappresenta. Capite la differenza?

Siamo solo all’inizio però. Se i documenti di fondazione possono far sembrare una bella cosa l’organizzazione di una comunità attorno a costrutti intellettuali, di fatto quella gente si sentirà vuota. L’identità ingegnerizzata sta all’identità come la foto di un pranzo sta a un vero piatto di spaghetti. E allora occorreranno dei contenuti emotivi per riempire quel vuoto. Ma dove prenderli? Perbacco, guarda il miracolo! La provvidenza ha fornito le tue terre vuote con alcuni nativi che puoi odiare per essere (ancora una volta, che combinazione!) l’esatto opposto del tuo senso di identità inventato. Missione compiuta. Non vedrai mai una comunità di persone più possedute da un odio tanto demoniaco quanto i coloni nei confronti delle genti che hanno colonizzato; né vedrai mai una cultura altrettanto basata sulla negazione delle altre genti quanto una cultura colonizzatrice. Il motivo è che la cultura del colono non ha un significato positivo proprio.

Eppure c’è ancora dell’altro. Infatti la stessa esistenza di una comunità nativa —con il suo senso naturale, non intellettuale, psicologicamente generativo di un sé collettivo— assurge a minaccia. Una tale comunità funziona da specchio delle tue incongruenze e del loro carattere innaturale, forzato. Di conseguenza sei obbligato a sterminarla. Devi far estinguere le identità indigene native. Questo è il motivo per cui l’America, che è davvero, al suo interno, poco più del marketing del marketing come essenza, combatte e odia così tanto le comunità native in tutto il mondo. Questo è il motivo per cui ha sempre appoggiato l’apartheid, è strettamente alleata con l’Australia ed il Canada, e s’impegna nella distruzione dell’identità indigena delle Hawaii. Da qui deriva buona parte del motivo per cui sostiene così tanto Israele. Se la tua identità, la tua missione nella vita, è quella di sostituire l’identità indigena nativa con una simulazione di marketing intellettualizzata, tale lavoro non può restare incompiuto, o la sua assurdità verrà alla luce. Se sei l’America, se sei una superpotenza colonizzatrice, devi sradicare tutta l’autenticità completamente e per sempre.

Sebbene si tratti di un argomento affatto diverso, questo discorso spiega magnificamente anche la corporativizzazione dell’economia e la distruzione deliberata e meticolosa di piccoli negozi e delle imprese famigliari: tutto ciò che ha una vera identità deve essere distrutto affinché il colonialismo compia la sua missione. La rinnovata aggressività internazionale dell’America può essere vista, secondo la mia teoria, come una reazione riflessiva a una minaccia percepita. Tale minaccia è duplice: in primo luogo perché gli stessi americani hanno iniziato a stancarsi e a mettere in discussione il loro sé inventato; e in secondo luogo perché le identità native, il Sud globale, che pure avrebbe dovuto essere già scomparso da un pezzo, pare più energico che mai. E ciò spaventa a morte il costrutto America.

Alon Mizrahi

Alon Mizrahi è uno scrittore e pensatore israeliano mizrahì (sefardita), cresciuto a Yokneam, in Galilea. Da bambino e adolescente ha studiato in varie scuole, inclusa una yeshivah, o scuola religiosa tradizionale, a Bnei Brak. Ha svolto molti mestieri e ha studiato lingua e letteratura inglese all’Università di Haifa. Il suo pensiero politico è debitore al trascendentalismo di Emerson, alla poetica di Whitman e alla biografia di Malcolm X. Nel 2020 ha pubblicato per l’editore Locus di Tel Aviv il suo primo saggio, Freedom: A Manifesto (Libertà: un manifesto). Alon gestisce il blog Eastern Oak (https://easternoak.co/). Il presente testo, tradotto in italiano da Stefano Serafini per gentile concessione dell’Autore, è stato pubblicato in inglese su X il 19 febbraio 2024 (https://x.com/alon_mizrahi/status/1759555325076652174?s=20).

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